"Violenza Ostetrica" La storia di Nany
- Serena Tolomei
- 18 apr
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 16 mag
"Vorrei iniziare il mio racconto con una riflessione:

Si parla spesso di “violenza ostetrica”, ma secondo me è una definizione imprecisa e riduttiva. In realtà, dovremmo chiamarla in un altro modo, perché la violenza che noi neomamme subiamo in un momento tanto delicato della nostra vita non arriva solo dalle ostetriche. La subiamo anche (e a volte soprattutto) dai ginecologi, dai medici di reparto, dalle infermiere, dagli anestesisti, dalle puericultrici. È una violenza che può essere fisica, psicologica, emotiva.
È una violenza sistemica, che coinvolge più comparti e figure sanitarie, e che spesso ci lascia sole, spaventate, disorientate.
È importante allargare lo sguardo e riconoscere l’intero sistema che, invece di prendersi cura di noi, ci ferisce proprio nel momento in cui siamo più vulnerabili.
Io credo di aver subito una forma di violenza ostetrica, dal momento in cui sono arrivata in ospedale fino a quando ne sono uscita.
Sono entrata in ospedale per un controllo, dovevo fare un monitoraggio.
Dopo il monitoraggio ci siamo accorti che la bambina era diventata tachicardica, e io non la sentivo muoversi da alcune ore. A quel punto hanno deciso di ricoverarmi.
Da lì sono iniziate le induzioni, che sono andate avanti per quattro giorni.
Sono partiti con la fettuccia.
Ho chiesto spiegazioni su cosa fosse, come funzionasse e cosa avrebbe comportato, ma non ho ricevuto alcuna risposta.
Poi sono passati alle prostaglandine. L'applicazione avveniva ogni quattro, forse cinque ore. Ricordo bene che, già dopo dieci minuti dalla prima somministrazione, ho iniziato a sentire un bruciore fortissimo. Ho chiamato l’infermiera, che a sua volta ha chiamato l’ostetrica. Ho cominciato a fare domande, a chiedere se fosse normale, perché sono un soggetto allergico, con diverse allergie a numerosi farmaci. Ero preoccupata che stessi avendo una reazione avversa. Ma mi hanno detto che era tutto normale, che era normale sentirsi bruciare....
Successivamente mi è stata somministrata l’ossitocina, e da quel momento sono iniziate le contrazioni vere e proprie, molto forti.
Io ritengo di aver subito, in questa fase, una forma di violenza ostetrica, esclusivamente perché nessuno rispondeva alle mie domande.
Mi è stato imposto di restare sdraiata, ferma, immobile a letto. Non mi era permesso alzarmi.
Ma per me, la violenza ostetrica non si è fermata lì.
È continuata.
Durante il travaglio, in sala parto, ho avuto accanto un’ostetrica meravigliosa: molto paziente, dolce, disponibile.
Ammetto che da quel punto di vista sono stata fortunata.
Mi è stata vicina per tutto il tempo, ha cercato di rassicurarmi, ricordo che mi faceva dei massaggi e mi ha sempre lasciato scegliere la posizione che ritenevo più adatta per me, sia durante il travaglio che durante il parto.
Il problema è sorto quando è arrivata la ginecologa di turno.
Entrata in sala travaglio ecco un'altra forma di violenza che ho subito, quella di dover praticamente pregare la ginecologa perché contattasse l’anestesista per farmi l’epidurale.
N.B. L’ospedale dove ho partorito offriva la possibilità di fare l’epidurale, e io mi ero preparata con largo anticipo: avevo fatto tutte le visite necessarie, consegnato tutta la documentazione, seguendo scrupolosamente le indicazioni ricevute.
Mi era stato detto chiaramente: “Signora, basta che alzi la mano e la richiede, e subito le verrà fatta.”.
E invece no.
Ho dovuto insistere, insistere tanto
Non perché non ci fossero le condizioni mediche — ero dilatata solo di 3 cm, quindi perfettamente in tempo per riceverla — ma per una questione che ancora oggi non riesco a spiegarmi.
La ginecologa continuava a ripetermi frasi del tipo:
“Ma dai, sei così giovane, non riesci a sopportarlo? Non è così doloroso il parto…Sei arrivata fin qui, i primi centimetri sono i più difficili, poi è tutto in discesa. Non ti serve l’epidurale. È più il tempo che ci vuole a chiamare l’anestesista che il sollievo che ti darà"
Alla fine sono riuscita a convincerla, ed è stata fatta la prima dose di epidurale.
Peccato però che non mi abbiano spiegato che ne sarebbe servita una seconda.
Secondo loro, avrei dovuto ricordarmi da sola — io, in travaglio attivo, sudata, stremata, con le contrazioni continue, in una stanza calda, mio marito che cercava di aiutarmi porgendomi l’acqua e l’ostetrica che provava a starmi vicino — dovevo ricordarmi io che dopo un’ora e mezza o due avrei dovuto chiedere un’altra dose.
Mi è sembrato assurdo. E ingiusto. Durante il travaglio la ginecologa è entrata in sala, ha fatto uscire mio marito — lo ha praticamente obbligato a lasciare la stanza
Poi, mentre mi visitava, mi ha detto: "Signora, adesso sentirà un pizzicore"...
E invece, improvvisamente, ho sentito tutto il corpo bagnato, un senso di perdita fortissimo.
Ho alzato la testa e ho visto tantissimo sangue. Mi sono spaventata. Ho cominciato a urlare, perché non capivo cosa stesse succedendo, nessuno mi aveva spiegato nulla.
La ginecologa ha guardato l’ostetrica e le ha detto:
“La signora deve partorire immediatamente, la bambina sta entrando in sofferenza.”I
o ho urlato ancora, ma questa volta dalla rabbia, dalla paura, dal totale disorientamento.
Da lì è iniziato tutto a succedere molto in fretta. L’ostetrica è corsa a chiamare mio marito e mi ha detto: “Come ti vuoi mettere per partorire? Vuoi la posizione classica? La sedia?”
Ero talmente sconvolta che ho risposto d’istinto: la posizione classica.
E così mi sono ritrovata lì, a spingere. Ma non ci riuscivo. Ero esausta, distrutta fisicamente, e mentalmente ero nel panico più totale.
L’ostetrica se n’è accorta, ha capito che ero molto provata. Così ha richiamato la ginecologa. Lei è tornata, ha guardato mio marito e gli ha detto di uscire di nuovo.
Poi mi ha guardata e ha detto: “Al mio tre spinge.” Ho spinto.
Ma al suo “tre”, invece di aiutarmi con la voce o con il supporto, mi è salita sopra con tutto il corpo, premendo con forza sulla pancia per far uscire la bambina. Io ho urlato!
Mi sono arrabbiata. Ero terrorizzata: temevo avesse fatto male alla mia bambina.
Mio marito, sentendo le urla, è entrato di nuovo. L’ha vista sopra di me, si è arrabbiato anche lui.
Non capiva cosa stesse succedendo. Solo quando ha visto che la bambina stava uscendo si è tranquillizzato un po’.
La ginecologa se n’è andata poco dopo: era arrivato il cambio turno.
Ha lasciato l’ostetrica da sola, che ha portato avanti il resto del parto.
Poco dopo è nata mia figlia
Il primo vero contatto con mia figlia sarebbe dovuto essere un momento indimenticabile, pieno d'amore. E lo è stato — ma non nel modo in cui avrei voluto.
Quando è nata, me l’hanno appoggiata sul petto per il contatto pelle a pelle.
Mio marito era accanto a me e mi diceva: "È nata, è la nostra principessa!"
Ma io non riuscivo a rilassarmi. Non riuscivo nemmeno a respirare bene. Perché mia figlia era bluastra, non piangeva, e le ostetriche e la ginecologa si scambiavano sguardi preoccupati, parlavano sottovoce tra loro.
Me l’hanno messa sul petto a pancia in su, ed è stato subito chiaro che qualcosa non andava. Dopo pochi secondi hanno iniziato la rianimazione. Non so quanto tempo sia passato, ma per me è sembrata un’eternità.
Alla fine ha fatto un respiro. Il suo primo respiro.
Nel frattempo io espellevo la placenta, mentre il personale faceva i controlli per assicurarsi che non ci fossero danni dovuti al parto.
Dicevano che era tutto “nella norma”, ma per me, nulla di tutto ciò lo era.
È stato un momento traumatico. Un trauma che mi porto dentro ancora oggi.
Quella paura, quella sensazione di poter perdere mia figlia proprio nel momento in cui l’ho stretta per la prima volta, ha segnato qualcosa di profondo.
Ha segnato il modo in cui oggi vivo la maternità, il modo in cui mi prendo cura di lei, il legame che abbiamo.
Da quel giorno, ogni volta che lei sta male o piange, dentro di me si riaccende quella paura.
Quella scena non riesco a dimenticarla.
Il primo ricordo che ho di mia figlia non è stato gioia — è stata paura.
E credo che tante cose si sarebbero potute evitare.
La violenza — quella che definirei sistemica — non è finita con il parto.
Anzi, è continuata nei momenti successivi, quelli in cui avrei dovuto iniziare a vivere l’inizio del legame con mia figlia con serenità.
Avevo partorito alle sei del pomeriggio. Qualche ora dopo, ho chiesto a un'infermiera se potesse rimuovermi l’ago dell’accesso venoso, perché durante il parto si era spostato e avevo metà ago fuoriuscito dal braccio. Mi faceva male, era fastidioso, e soprattutto non riuscivo a prendere in braccio mia figlia con entrambe le mani.
La risposta che ho ricevuto è stata glaciale: “Signora, questa non è un’emergenza. Siamo sotto organico, non posso aiutarla.”
Io ho cercato di spiegare: “Capisco perfettamente la situazione, ma non riesco a prenderla in braccio con una mano sola. E se uso l’altro braccio, rischio di spezzare l’ago.”
Ma nulla. Nessuno è venuto. Nessuno ha fatto nulla.
Sono venuti solo la mattina dopo, alle dieci.
Solo allora si sono ricordati di rimuovere l’ago, dopo tutta una notte in cui ho dovuto chiedere a mio marito di aiutarmi in tutto. Finché è potuto rimanere, lo ha fatto.
Ma quando lo hanno fatto uscire, sono rimasta sola a dover chiedere aiuto continuamente,
In un ospedale dove avrei dovuto sentirmi sicura, protetta, accompagnata."
GRAZIE a Nany, che con il suo contributo ha arricchito la rubrica "Raccontami la tua storia" (N.B. Nany è un nome di fantasia ma la persona e la storia sono reali.)
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